Cose strane che dicono i bambini, parte 2

I nomi in questo articolo sono fittizi.


Il secondo episodio di questa serie di imbarazzanti eventi prosegue nell’illustrazione delle cose più strane o più divertenti dettemi dai bambini con cui lavoro per il servizio civile. Il primo episodio può essere letto qui.

CUSTODI ALLEGRE

Le bidelle a Livorno hanno un problema non indifferente, e cioè condividono tutte le lettere meno una con una parola che in dialetto indica offensivamente una persona di scarso pudore. Chi non ha mai sentito parlare del budello di tu’ ma?

Un giorno Alessandro, sempre delle materne, ha compiuto una scoperta di importanza capitale, ovvero ha trovato nel terriccio uno squisito lombrico, bello schifoso e viscido (traducendo quindi in bambinese, meraviglioso), come ho potuto apprezzare più volte, data la sua missione di spiattellarmelo sotto il naso perché potessi vederlo meglio.

A quel punto, la maestra ha portato Alessandro in giro per mezza scuola per esaudire il suo desiderio di mostrare a tutti i il suo prezioso tesoro, in particolar modo alle custodi, alle quali il bambino urlava per errore, con estremo entusiasmo: “BUDELLAAAAAA! Guarda cos’ho!”

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CHIOME FLUENTI

Dall’inizio del progetto, i miei capelli per qualche motivo sono diventati oggetto di attenzioni da parte di tutte le studentesse. Esse si informano sempre sul perché io porti la treccia centrale (tirandola come monaci benedettini attaccati alla corda di una campana), perché la settimana scorsa la portassi di lato, e vogliono sapere perché oggi ho i capelli sciolti, perché ieri avevo la coda, perché me li sono lavati, perché ho i capelli, perché esisto, perché siamo venuti al mondo, quando scopriremo lo scopo di questa esistenza e come possiamo trascendere le passioni terrene per giungere all’illuminazione.

Comunque, eccomi a spiegare il genitivo sassone alle elementari mentre una bimba, dopo tante insistenze, mi fa per l’appunto una treccia (il che è stato un’operazione estremamente dolorosa, sopportata con stoicismo per non farcela rimanere male). O ecco le bambine di quarta che, appena mi chino per verificare che l’esercizio stia andando bene, mi si appendono ai capelli come galagoni alle liane degli alberi.

Certo provo un segreto piacere nel ricevere questi complimenti, dato che intimamente non posso negare di conoscere la verità — ben più bigia, come spesso accade: sfibrati da eccessivi trattamenti, i miei capelli finché non li ho tagliati facevano in effetti abbastanza schifo. Per non parlare dell’eterno cruccio della ricrescita e del temuto ingiallimento dei capelli decolorati, cose che le bambine delle elementari sembravano non notare, illudendomi di essere in possesso di una invidiabile, uniforme, luminosa e setosa chioma di un naturale biondo platino.

Per questo è meno bello ritrovarsi alle materne, dove i bambini, scevri da ogni orpello civile, dicono semplicemente tutto quello che pensano. Anche e soprattutto la cruda verità.

“Maestra, come mai hai i capelli neri sopra?” domanda senza misericordia un bambino, alludendo a quella famosa ricrescita che non posso più ignorare, e che si presenta come il disastro ambientale color pece della British Petroleum.

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Tento disperatamente di spiegare che non si tratta di nero, bensì di una tonalità particolarmente scura di biondo cenere, cercando di ingentilire la realtà dei fatti. Ma il bimbo è categorico: nera.

Ma anche quando finalmente mi decido a correre ai ripari, e mi presento a scuola con un colore uniforme, restano i problemi.

“Maestra, tu hai i capelli gialli,” dichiara spietatamente Teresa, senza la minima considerazione dell’improvviso ma puntualissimo inabissarsi della mia autostima.

“No, tesoro, si dice biondi,” tento di correggerla, con un falsissimo sorriso di natura omicida.

E il giorno dopo, eccola di nuovo: “Maestra, tu hai i capelli biondi…”

“Brava!” la lodo, profondamente commossa.

“… e gialli”.

ARGH!

MODA COMODA

Anche dell’abbigliamento bisogna sempre rispondere, in un modo o nell’altro, al tribunale dell’infanzia, presieduto da infallibili e implacabili giudici di tre anni che passano al vaglio ogni tua scelta di outfit.

“Maestra hai un serpente sulla maglietta”.

“Esatto, è un cobra”.

Giovanni si rabbuia. Mi guarda come se fossi andata fuori di cervello, o come se stessi cercando di ingannarlo e lui se ne fosse accorto, e dopo avermi dato una scapaccione offeso sulla coscia, insiste. “No maestra. Quello è un serpente”.

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Esistono scelte più apprezzate di altre. La felpa di Batman, per esempio, ha sempre un grande successo in classe, nonostante una maestra particolarmente incallita passi tutto il pomeriggio a indottrinare i bambini su quanto Batman faccia schifo perché è nero e il nero è un colore moralmente ed eticamente deplorevole — figurarsi com’è caduto il cielo quando un bambino si è addirittura azzardato a colorare un fiore di nero, in un ispirato momento goth, scatenando l’ira della tradizionalista maestra con un segmento di monorotaia al posto del ragionamento creativo.

Diffidente sconcerto alle elementari invece per la felpa di Serpeverde, la quale, associata al fatto che stavo per fare un dettato sugli omofoni, mi ha qualificato immediatamente come il villain della situazione.

Tuttavia, il momento aureo è stato alle materne. Fautrice della moda comoda, non rinuncio ai miei pantaloni di felpa, convinta, ingenuamente, che in fin dei conti possano essere trendy. Ed ecco che arriva una bambina con degli innocenti occhi pallati a dirmi: “Maestra, ma insomma, perché sei sempre in pigiama?

Maledizione.

TELL IT LIKE IT IS

Alcuni bimbi possiedono dei nonni o dei genitori particolarmente sanguigni nelle loro esternazioni di toscanità, e da essi apprendono le più elementari e irrinunciabili normative di espressione colorita.

Così, alle materne, mentre getto un’ozioso sguardo di insieme alla baraonda del gioco, vedo un bimbo colpire inavvertitamente una bimba con un pennarello, e dal viso di porcellana di lei si leva un tonante: “AHIA, M*DONNA PUTTANA!” (scus. il term.)

Oppure quando Lorenzo mi si presenta per raccontarmi una storia della massima importanza: “Maestra, lo sai che gli sbandieratori di Città Nuova, quando entrano in piazza, dicono…” pausa significativa “MERDA?”

O un altro ancora, desideroso di scrollarsi di dosso un amico un po’ troppo invadente: “EBBASTA, MAREMMA TROIA”.

Commovente.

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UN MOMENTO DI RELAX

Per il laboratorio di inglese, ho diviso tutte le classi delle elementari che avevo in quattro squadre, allo scopo di convincerli a interessarsi della forma interrogativa per lo meno in virtù di una gara, e per dialogare con i giovani tramite una formula in stile Harry Potter, per quanto sia palese che Harry Potter ormai è già da vecchi sfiniti.

In una classe, poco dopo lo smistamento in squadre, avevo intenzione di fare un lavoretto sui colori, perciò annuncio: “Via, ora si fa una cosa rilassante”.

Peccato che l’urlo belligerante che mi è giunto in risposta da un’adorabile bambina mora in prima fila sia stato: “LA GUERRA!!!!”

Segue uno “YEEEEEEEE” collettivo e lo scatenarsi di un finimondo su vasta scala.


Spero al più presto di poter collezionare altri campioni di conversazione degni di nota, ma, per ora, interrompo qui.

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